Torino, la techno e l’acufene
Acufene: L’acufene, noto anche come “tinnito“, è un disturbo a carico dell’orecchio che si manifesta con una percezione sonora per lo più a tonalità acuta (simile a un fischio, a un ronzio o a uno scampanellio) seppur in assenza di rumori esterni. Le cause all’origine di questo disturbo possono riguardare direttamente l’orecchio (otogene), oppure possono dipendere da fattori esterni all’orecchio. (Humanitas.it)
Il giorno dopo la discoteca sentivo un fischio continuo all’orecchio destro. Non era tanto il rumore ad agitarmi, quanto il pensiero ricorrente che quel fischio non se ne andasse più. Il volume della techno, la sera prima al Bunker, era oscenamente alto. Le mie orecchie erano ipersensibili, non riuscivo ad usare le cuffie e avevo la continua sensazione essere sprofondato sott’acqua, come se stessi facendo il morto vicino alla riva del mare e mi arrivassero i rumori e le voci dagli ombrelloni. Con il passare dei giorni il fischio e il rumore bianco sono più o meno andati via, ritornando sporadicamente la mattina o dopo aver dormito il pomeriggio. L’acufene era sempre lì, ma avevo deciso di far finta di niente. Oppure, per qualche settimana è passato davvero, non so più dirlo con certezza. Ero ancora traumatizzato dai rumori forti, dalla musica messa dal camioncino alle manifestazioni o dalla musica commerciale delle feste. Quando mi trovavo vicino a delle casse mi allontanavo il prima possibile e sentivo il cuore battermi un po’ più forte del solito.
Poi l’acufene è tornato e lì ho avuto paura davvero. Avevo il terrore che non passasse più, che sarebbe peggiorato, che mi avrebbe reso la vita impossibile. Che avrei sentito sempre di meno con il passare dei mesi e degli anni. Ho cominciato a farci sempre più caso, a fingere di ignorare quel rumore bianco, mentre invece lo studiavo fino alle sue frequenze più impercettibili. Il mio cervello tornava e tornava su quella lavanderia a gettoni che ronzava nelle mie orecchie, più nel destro che nel sinistro, su quel fischio quasi inudibile che a volte riuscivo a distinguere nel rumore di fondo.
Il Bunker era sgarrupato e bellissimo. Io e Agnese siamo arrivati prima di mezzanotte, come i soliti nerd che siamo. La techno è quella cosa che ti fa paura, ma che al tempo stesso ti sottomette al suo fascino irresistibile e magnetico. Ti risucchia nel maelström e non puoi fare altro che arrenderti. Surrender, come il disco dei Chemical Brothers. Eravamo lì, ma ci sembrava di essere in un’altra galassia, ad anni luce da Torino, dai palazzi settecenteschi di Juvarra, da Porta Nuova, dalla mia facoltà. Dal mio appartamento con il balcone da cui si vedono le montagne – solo nei giorni senza foschia. A quell’ora anche i 4 avevano smesso di andare avanti e indietro, collegando la parte rispettabile della città con quella dei poveri, Santa Rita con Barriera di Milano. Persi in quel bordello. Agnese mi ha raccontato che mentre ballava pensava ad una foresta; io invece pensavo all’acqua: mi sembrava di scendere sempre più nelle profondità marine, come la generazione di bambini acquatici dei Drexciya. Qualche giorno dopo ho scritto che quella notte di techno è stata la fine del mio primo capitolo a Torino, quel primo capitolo che invii alle case editrici sperando che qualcuno ti pubblichi. Forse c’ero davvero, avevo superato il test nonostante tutta la merda. In ogni caso, ne ero uscito. Le notti passate a ballare non significano niente in fondo, ma sono riti di passaggio con cui noi esseri umani ci ricordiamo le cose. Poi, dopo il Bunker, l’acufene.
Prima di tutto l’acufene mi è sembrato ingiusto. Un tradimento dalla techno, da Torino, da quello che mi aspettavo dal futuro. Mi sembrava di essermi scottato le dita come un bimbo maldestro. Non era così che doveva andare, non con le orecchie devastate. Non con il senso di colpa di essere andato per la prima volta in un club senza i tappi. Mi è sembrato che una cosa bella, un simbolo, venisse macchiato dalle sue conseguenze. Che non dovevo essere io, sempre cauto in ogni cosa, a venire punito così. Io che ho paura anche di fumare erba.
Ho scelto Torino per la mia università anche per la musica, anche perché era la città del Club to Club. Non sono molto bravo a vivere le cose, però ho un talento speciale nel costruirle nella mia testa. Prima di trasferirmi, Torino per me era una città di dischi e di vinili, di techno che faceva vibrare le pareti, di gente strana incontrata nei club. Era la Torino afosa e invivibile che avevo conosciuto ad agosto dell’anno prima, ma un po’ anche la Londra di Burial. Era una città di bassi, anche di medi e di alti. Il Bunker mi sembrava il centro di tutto.
Per parecchie notti ho dormito pochissimo. Mi addormentavo con un video, per non dover fare attenzione all’acufene, e mi svegliavo dopo qualche ora con le orecchie che ronzavano fortissimo, il cuore che batteva. Provavo a non farci caso, a non avere paura, ma l’ansia saliva ed era impossibile non concentrarsi sul ronzio. La mattina andavo a lezione, ed a poco a poco il rumore bianco ritornava a campire tutti gli spazi della mia attenzione, e ancora una volta sprofondavo sott’acqua. Poi ho deciso di andare a fare un controllo medico, in ritardo come al solito.
La dottoressa mi ha guardato quasi con compassione, lo sguardo appannato. Io ero abbastanza impanicato e non ho potuto fare a meno di chiederle: quanto mi dovrei preoccupare? Mi ha detto, parafrasando, che l’acufene fa un po’ il cazzo che gli pare e non c’è davvero molto che si possa fare. Forse ad un certo punto ci saluteremo, forse no, forse continuerà a sussurrarmi nelle orecchie fino alla fine dei miei giorni.
I mesi sono passati a cavallo tra la techno e l’ambient, insieme a un po’ di garage, di trip-hop e altra roba indefinibile. Mesi di Hessle Audio su Rinse FM, di Nightmares on Wax, di Nicola Cruz, di Joy Orbison, di Birds ov Paradise, Two Shell e Dreamfish. La techno è quell’energia primordiale e inspiegabile, quell’educazione al lasciarsi andare, allo scollegarci dal nostro cervello ossessivo come rito collettivo. L’ambient è quel mare che pensi non abbia più niente di nuovo da dirti, ma che ti mostra sempre una sfumatura diversa: una canzone ambient non suona mai la stessa per due volte. Entrambi questi due mondi, mi sembra, condividono una stessa malinconia di fondo, una stessa intuizione di passato e futuro perduti che scorrono nelle loro profondità tra i bassi e i sintetizzatori.
Quello che mi ha fatto paura del mio acufene non è stata solo la patologia in sé, ma anche lo sbirciare nell’abisso che è la nostra mente, il capire quanto il nostro cervello può convincersi di cose, quanto può farci scivolare nell’ansia per motivi minuscoli. Il modo in cui può trascinarci con sé senza alcuna possibilità di controllo. Sentivo il rumore bianco ovunque, anche dove non c’era, scambiavo ogni più minuscolo suono esterno per il mio acufene, mi convincevo che il rumore del condizionatore in aula provenisse dalle mie orecchie.
Non sono un martire: ho una forma di acufene piuttosto lieve e la mia vita procede alla grande. Non ho scritto quest’articolo per piangermi addosso, ma per provare più che altro ad unire i puntini. Sono passati alcuni mesi e l’acufene non è andato via. Gli integratori che mi hanno prescritto mi hanno fatto solo sprecare soldi. Non credo mi abbandonerà mai, ma per fortuna non si è aggravato. Non posso avere la certezza che non peggiorerà mai, non posso dire di non avere il terrore che aumenti. Il mio cervello riesce ad ignorarlo abbastanza bene, e ormai ci tolleriamo a vicenda, io e quest’inquilino fastidioso nelle mie orecchie. Queste mattine di sessione mi alzo alle sette e prima di mettermi a studiare medito per una decina di minuti. L’acufene mi dà il suo buongiorno e le mie orecchie impiegano qualche minuto per rimetterlo al suo posto. Ma alla fine ci riescono – più o meno.
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